Avvocato Pallanch

OMICIDIO COLPOSO DI UN CLOCHARD – Niente risarcimento ai parenti che lo avevano trascurato!

In caso di omicidio doloso o colposo, il colpevole deve risarcire interamente il danno cagionato.

Tra i soggetti danneggiati dall’evento morte vi sono certamente i parenti della vittima i quali dovranno essere risarciti per ogni danno direttamente patito a causa della perdita del congiunto.

Con il termine danno da perdita parentale ci si riferisce al pregiudizio non patrimoniale derivante dalla perdita o dalla lesione del rapporto parentale.

Esso rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale e consiste nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, nonché nella sofferenza interiore derivante dal venir meno del rapporto (v. Corte di Cassazione n. 23469 del 28 settembre 2018). Tale particolare voce di danno non patrimoniale consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita (v. Cassazione sez. III, 20 agosto 2015, n. 16992).

Si tratta quindi di un danno non patrimoniale che sorge direttamente in capo al familiare superstite in ragione non solo della sofferenza per la perdita del congiunto ma proprio in ragione del c.d. “sconvolgimento dell’esistenza”.

Per quanto riguarda la liquidazione del danno, vanno tenuti presente i seguenti fattori:

a) l’età del congiunto superstite: minore è l’età e maggiore sarà il risarcimento. Si pensi al caso dei figli minori, destinati ad affrontare l’età dello sviluppo e l’intera loro vita senza un genitore.

b) l’età del parente deceduto: minore è l’età e maggiore sarà il risarcimento. Il danno evidentemente diminuisce con l’avvicinarsi dell’età di presumibile fine vita per causa naturale.

c) il legame di parentela: più stretto è il legame maggiore sarà il risarcimento.

d) il rapporto di convivenza con la vittima: si presume che il danno sia maggiore se sussisteva un rapporto di convivenza tra vittima e superstite.

Secondo la Suprema Corte, infatti, in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subito, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma (v. Cassazione sez. L, n. 14655 del 13/06/2017 m. 645856 – 01)

Il risarcimento però non è una conseguenza automatica del solo fatto di aver avuto un rapporto di familiarità con la vittima!

Per ottenerlo il familiare superstite dovrà provare di aver avuto con il congiunto deceduto un effettivo rapporto parentale e di aver subito quello sconvolgimento dell’esistenza sopra menzionato.

La regola generale (art. 2697 c.c.) non cambia: il danno deve essere allegato e specificamente provato.

Nella sentenza in esame il Tribunale di Roma ha escluso il diritto a risarcimento per i parenti (madre e fratelli)di un clochard deceduto a causa di una conclamata condotta colposa della struttura  ospedaliera.

Il risarcimento è stato escluso in quanto dall’istruttoria era emerso che negli ultimi anni la frequentazione familiare era divenuta inconsistente.

Insomma: da qualche anno madre e fratelli non avrebbero avuto più una intensa frequentazione con il familiare che aveva scelto di condurre vita di strada.

Se da un lato il Tribunale non ha negato che la madre ed i fratelli avessero sofferto per la perdita del congiunto, allo stesso tempo ha ribadito come nessun danno parentale potesse essere riconosciuto in quanto tale danno (secondo consolidato orientamento giurisprudenziale) va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e sulla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti, danno che può presumersi allorquando costoro siano legati da uno stretto vincolo di parentela, ipotesi in cui la perdita lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare” (cfr., ex multis, Cass. 16/3/2012, n. 4253; Cass. 14/6/2016, n. 12146; Cass. 15/2/ 2018, n. 3767).

 

Tribunale di Roma, sez. XIII Civile, sentenza del 6 marzo 2019

Processo e motivi della decisione

1. Con atto di citazione regolarmente notificato la sig.ra X.Y. (nella qualità di madre del defunto sig. X.X.), nonché i sigg.ri X.Z. e X.H. (nella qualità di germani del X.X.) convenivano in giudizio l’AZIENDA USL (omissis) per ivi sentire accogliere le seguenti conclusioni: “voglia l’on.le Tribunale adito, ogni contraria istanza, deduzione, eccezione, disattesa e reietta, accertare e dichiarare la responsabilità professionale del personale dipendente dell’Azienda USL (omissis) e precisamente del personale in servizio al Pronto Soccorso del Presidio Ospedaliero “(omissis)” di (omissis) e, quindi, la responsabilità della medesima Azienda, in relazione al decesso del sig. X.X., … e conseguentemente condannare la convenuta Azienda USL (omissis) al risarcimento integrale dei danni non patrimoniali subiti dagli attori e quantificati nella somma di Euro 184.000,00 in favore della sig.ra X.Y., madre del de cuius, Euro 88.000,00 in favore del sig. X.Z., fratello, nonché Euro 88.000,00 in favore della sig.ra X.H., sorella o comunque in quella somma maggiore o minore che sarà ritenuta di giustizia. Per quanto attiene al risarcimento del danno derivante dalla lesione del rapporto parentale e/o del danno esistenziale si chiede che il Tribunale voglia decidere in via equitativa, oltre interessi e rivalutazione, dalla data del decesso sino al giorno dell’effettivo soddisfo”.
2. A fondamento delle citate conclusioni gli attori esponevano quanto segue: il 26.10.2005, una donna segnalava la presenza del sig. X.X. all’incrocio tra viale (
omissis) e via (omissis); l’ambulanza trasportava il X.X. al P.S. dell’Ospedale (omissis) dove arrivava alle ore 16.13; una volta barellato, gli addetti del 118 lasciavano il paziente “nell’androne collocato tra la camera calda e l’area ove erano situati il box del triage e la sala di visita, denominato “atrio””; che, quale prima anomalia, andava segnalato il fatto che il paziente (non in condizione di deambulare autonomamente) avrebbe dovuto essere condotto nella sala triage per il rilevamento dei parametri vitali, loro registrazione e conseguente assegnazione del codice di gravità; che successivamente “l’infermiera addetta quel giorno al servizio di triage, sig.ra Y.Y., si avvicinava alla barella sulla quale giaceva il X.X., posizionata per l’appunto nell’atrio a circa due metri, due metri e mezzo di distanza dall’ingresso del posto di Polizia e rimaneva vicino alla barella per qualche istante (n.d.e. quantificabile in circa venticinque secondi) senza mai toccare il paziente né tanto meno rilevarne i parametri vitali e riattraversava di nuovo le porte scorrevoli per entrare nell’area del triage, lasciando il paziente sulla barella nell’atrio”; che al X.X. veniva assegnato un codice bianco “ovvero quello che si assegna ai soggetti che non presentano condizioni di urgenza e non necessitano di interventi di urgenza”, come documentava il referto di Pronto Soccorso allegato alla cartella clinica intestata al paziente “ignoto 2006”, non risultando che l’infermiera Y.Y. “avesse fatto il minimo tentativo di farsi declinare oralmente le generalità” al X.X., visto che il clochard non aveva con sé documenti; che, successivamente, l’infermiera Y.Y. aveva lasciato il X.X. sulla barella nell’atrio e, dunque, in un luogo nel quale non era da lei osservabile, e non nella sala triage o nelle immediate vicinanze della stessa, come richiesto dai protocolli nelle ipotesi in cui si compiono le operazioni in questione, per le quali il paziente deve rimanere sotto la diretta osservazione visiva dell’infermiera; che nessun componente del personale medico e paramedico del Pronto Soccorso si era avvicinato al paziente sino alle 18.01, ora in cui la sig.ra Z.Z. “all’epoca unica addetta del posto di Polizia del Pronto Soccorso dell’Ospedale (omissis…) usciva dal proprio ufficio, prendeva la barella sulla quale giaceva il X.X. e lo spostava all’esterno dell’ufficio, più precisamente nella camera calda, ovvero quella sorta di galleria nella quale transitavano gli automezzi che portavano o prelevavano i pazienti del Pronto Soccorso”; che, per effetto di questa manovra, il paziente si era trovato fuori dal campo di osservazione visiva delle infermiere addette al triage e del personale sanitario della D.E.A. e allorquando la dottoressa di turno in sala medica, sig.ra H.H., aveva chiamato in visita il paziente registrato come “ignoto 2006” alle ore 18.30 del 26.10.2005, l’infermiera Y.Y. “riferiva che si stava occupando lei stessa della ricerca del paziente” e, trascorsa un’ora senza che il paziente fosse ritrovato o si fosse presentato autonomamente, il sanitario chiudeva la cartella clinica digitando il codice numerico corrispondente alla modalità di chiusura “paziente non risponde alla chiamata”; che il sig. X.X. aveva trascorso l’intera nottata compresa tra il 26 e il 27 ottobre riverso sulla lettiga posizionata nella camera calda “in condizioni ambientali che non giovavano affatto alla sua situazione clinica e mai nessun infermiere o ausiliario in servizio al Pronto Soccorso si accostava alla barella durante tutta la notte”; che un addetto alla vigilanza, sig. V.V., avvicinandosi al senzatetto alle ore 7.49 del 27 ottobre, lo aveva invitato ad allontanarsi o a fare rientro nel Pronto Soccorso, ma il X.X. aveva risposto emettendo versi incomprensibili; che la stessa guardia giurata alle ore 10.49 (come documentato dalla telecamera all’angolo della camera calda) era entrata precipitosamente nel Pronto Soccorso alla ricerca di un sanitario che constatasse se l’uomo fosse ancora in vita; che alle ore 10.51 la barella era stata condotta nell’area triage ed ivi era stato constatato l’intervenuto decesso del X.X.; dopodiché due medici del Pronto Soccorso, dott.ssa M.X. e M.Y., nonché il dirigente del P.S. dott. M.Z. ebbero a falsificare la cartella clinica trascrivendo i dati clinici del X.X. “sulla cartella di Pronto Soccorso di un altro paziente, individuato come “paziente ignoto 2007” trasportato con autoambulanza del 118 presso lo stesso Ospedale (omissis) alle ore 21 circa del 26.10.2005″; che era stato iniziato procedimento penale nel corso del quale si era disposto esame autoptico per accertare le cause di morte del paziente e la correttezza delle cure praticate; “gli ausiliari tecnici della Pubblica Accusa deducevano che la morte di X.X. era stata causata da un’insufficienza cardio-respiratoria d’origine settica a seguito di broncopolmonite con focolai multipli-confluenti e superinfezione micotica, in soggetto già affetto da plurime patologie” (infezione che, in quanto manifestatasi in un tempo quantificato tra i quattro e i dieci giorni antecedenti al ricovero era certamente presente e rilevabile alle ore 16.13 del 26 ottobre 2005); che, con sentenza n. 178/2012, il Tribunale penale di Roma in composizione monocratica “dichiarava i Dottori M.X., M.Y., M.Z. e l’infermiera Y.Y. responsabili dei reati loro rispettivamente ascritti in rubrica”, ritenendo Y.Y. colpevole del reato di omicidio colposo e i sanitari colpevoli dei delitti di falsità materiale e di falsità ideologica.
3. Si costituiva in giudizio l’AZIENDA USL
(…)
4. Si costituiva in giudizio la COMPAGNIA ASSICURATRICE
(…)
6. Si costituiva in giudizio – a seguito della notifica a mezzo del servizio postale – la COMPAGNIA ASSICURATRICE 2,
(…) riportandosi interamente alle deduzioni in fatto e in diritto già svolte dalla coassicuratrice COMPAGNIA 1 nel relativo atto introduttivo.
7. All’udienza del 14.7.2016 il giudice concedeva termini ex art. 183 VI comma c.p.c. “con decorrenza del 1. settembre 2016” e rinviava all’udienza del 24.11.2016. Con le memorie istruttorie le parti si riportavano ai rispettivi atti, insistendo nell’accoglimento delle relative conclusioni e delle richieste istruttorie. Il Giudice, a scioglimento della riserva assunta, ammetteva le prove testimoniali richieste come indicate nell’ordinanza del 25.11.2016 e rinviava per l’assunzione delle suddette prove alla data del 23.2.2017 (d’ufficio al 22.11.2017). Ivi, venivano escussi due dei testi di parte attrice; la sig.ra (
omissis) rispondeva: “In data dell'(suo n.d.e.) avvenuto divorzio non conosceva il signor X.X. e l’ho conosciuto dopo quando già viveva a casa della madre X.Y.. Ho conosciuto il sig. X.X. intorno al 1994. Ho visto l’ultima volta il sig. X.X. al momento del matrimonio nel 2003 e nel 2005 costui è venuta farci visita… Confermo che il sig. X.X. si recava ogni anno per far visita alla madre nelle festività natalizie e pasquali, ma anche in altre occasioni, dopo il suo trasferimento in Italia. Non ricordo neanche in approssimazione in che data il X.X. si sia trasferito in Italia…E’ vero che nel dicembre 2003 il sig. X.X. partecipò al matrimonio di mia figlia. All’epoca costui era già in Italia….E’ vero che il sig. X.X. si recava a Pancaldoli in visita dalla sorella. Ho saputo questo perché raccontatomi da sua sorella X.H.”; veniva introdotto il secondo teste, la sig.ra (omissis), la quale rispondeva: “sono giunta Italia nel 2001 ed al tempo del matrimonio conoscevo solo X.H.. Avevo pochi contatti con X.H. e ho conosciuto X.X. solo perché in un’unica occasione (nell’autunno del 2003) ho avuto modo di incontrare X.H. e X.X. a Piancaldoli davanti ad un bar che adesso si chiama bar MELINDA. Non ho più rivisto il X.X.. Ho modo di incontrare talvolta la signora X.H. anche perché siamo connazionali e abitiamo ad una decina di chilometri l’una dall’altra. L’incontro è stato occasionale anche se si era programmato con X.H. di pranzare insieme per presentarle X.X.”. Il giudice rinviava per p.c. all’udienza del 14.3.2018 (d’ufficio 28.6.2018 e successivamente al 19.9.2018 ex 309 c.p.c.)
8. All’udienza del 14.3.2018 l’attore chiedeva di poter depositare copia autentica della sentenza 7003/2017 della Corte d’appello di Roma (atto venuto in essere successivamente alla chiusura dell’attività istruttoria). Il giudice rinviava per l’incombente alla data del 4.10.2018. Ivi, le parti concludevano come da rispettive conclusioni e chiedevano termini ex art.190 c.p.c. Il Giudice tratteneva la causa in decisione e concedeva i termini per comparse conclusionali e repliche.
9. Le domande sono infondate e, pertanto, devono essere rigettate.

10. Preliminarmente, è opportuno osservare che l’odierna convenuta
AZIENDA USL (
omissis) (oggi ASL (omissis)) non ha contestato gli assunti attorei per ciò che attiene la ricostruzione storica degli eventi per i quali è causa, né tantomeno la responsabilità del relativo personale medico e sanitario in servizio al Pronto Soccorso dell’Ospedale (omissis) di (omissis) negli orari compresi tra l’arrivo in autoambulanza del 118 del sig. X.X. (ore 16.13 del 26.10.2005) e il momento in cui un addetto alla vigilanza ITALPOL si avvedeva che il clochard polacco giaceva ormai esanime (ore 10.49 del 27.10.2005). Anzi, la Convenuta Azienda ASL (omissis) ha riconosciuto la propria legittimazione passiva allorché – a seguito della richiesta di risarcimento danni avanzata dalle figlie del de cuius il 10.7.2007 – ha provveduto a inoltrare la menzionata richiesta alla relativa COMPAGNIA ASSICURATRICE 1 (terza chiamata nel presente procedimento) senza nulla opporre in merito alla propria responsabilità; l’Assicurazione ha difatti liquidato alle richiedenti un importo pari a Euro 220.000,00, “già a far data dal 29.11.2007” (come da documenti allegati alla comparsa di costituzione).
11. Devono perciò ritenersi pacifiche e non suscettibili di formare oggetto di ulteriore controversia le circostanze in cui è sopraggiunta la morte del X.X. e il fatto (ormai acclarato) che la negligenza, imprudenza e imperizia in cui è incorso il personale sanitario, medico e paramedico dell’Azienda oggi convenuta – e che all’epoca dei fatti prestava servizio nell’area del triage e delle sale medica, emergenza e chirurgica – abbiano concorso in maniera inconfutabile e significativa, stante il (già) critico quadro clinico in cui il clochard versava al momento dell’accesso al Pronto Soccorso (grave infezione polmonare in fase acuta), ad accelerare l’iter evolutivo del processo patologico in atto (decisivo e convincente quanto annotato dal giudice penale sulla posizione dell’agente di polizia Z.Z. v. pagine 35 ss. sentenza n.178/2012 doc. 22).
12. A dette conclusioni è pervenuto il giudice penale
(…)
13. Ciò premesso, nel relativo atto introduttivo, l’Azienda ospedaliera convenuta – in questa sede – si è limitata: 1. a contestare la risarcibilità del (presunto) danno da perdita di relazione parentale invocata da parte della madre e dai germani del defunto X.X.; 2. in subordine, ha chiesto che nella definizione del quantum debeatur si tenga conto dell'”incidenza che nel processo causativo della morte ha avuto la condotta posta in essere dalla Z.Z.” la quale, come detto, agiva nella qualità di assistente capo della Polizia di Stato addetta al posto di polizia collocato all’ingresso del Dipartimento Emergenza/Urgenza e la cui “azione improvvida” – consistita nello spostare la barella sulla quale giaceva il de cuius all’interno della camera calda e, così, al di fuori dei locali del Pronto Soccorso e della sfera visiva e di monitoraggio del personale infermieristico – “determinava l’esposizione di un individuo affetto da un’infezione broncopneumonica a focolai multipli in fase acuta.. a temperature comprese tra gli 11. C e i 13. C”, incidendo nel processo deterministico del suo decesso (come si legge anche nella citata sentenza penale di prime cure).
14. Ciò posto v’è, tuttavia, da prendere in considerazione il punto della sussistenza o meno del danno-conseguenza lamentato dagli odierni attori nella vicenda de qua sotto il profilo della interruzione del rapporto parentale. In proposito, alla luce della giurisprudenza di legittimità appresso indicata, mette conto osservare che il Tribunale di Roma nella relazione di accompagnamento alle Tabelle 2018 ha fatto proprio l’indirizzo secondo cui “La giurisprudenza ha avuto modo anche di precisare la natura del danno da perdita del rapporto parentale chiarendo che, fermo il fatto che lo stesso debba essere allegato e provato specificamente dal danneggiato ex art. 2697 c.c., esso rappresenta un peculiare aspetto del danno non patrimoniale, distinto dal danno morale e da quello biologico, con i quali concorre a compendiarlo, e consiste non già nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità, bensì nello sconvolgimento dell’esistenza, rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita (v. Cassazione sez. III, 20 agosto 2015, n. 16992)”.
15. In tema di accertamento e quantificazione del danno da perdita di un prossimo congiunto, deve ritenersi costituisca (come detto) insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità il principio di diritto secondo cui “in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma” (si veda Cassazione sez. L, n. 14655 del 13/06/2017 m. 645856 – 01). Ricorda la medesima pronuncia che la ripartizione tra le parti dell’onere probatorio debba conformarsi al criterio generale in base al quale le circostanze del caso concreto (come sopra elencate) – idonee a consentire al giudice di compiere un’adeguata personalizzazione del danno – sono “da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio”, viceversa “spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare”.
16. A questo doppio onere probatorio gli attori non hanno assolto, mentre per sua parte la ASL (
omissis) ha offerto un’efficace confutazione della sporadica e insufficiente prova testimoniale dedotta ex adverso. Detto ciò in premessa, in termini più puntuali, la prova che incombe al danneggiante, cui spetta dimostrare l’inesistenza dei pregiudizi lamentati da controparte, non può certamente consistere – nel caso di “legame parentale stretto – nella mera mancanza di convivenza, atteso che il pregiudizio presunto, proprio per tale legame e le indubbie sofferenze patite dai parenti, prescinde già, in sé, dalla convivenza; la mancanza di quest’ultima, quindi, non può rilevare al fine di escludere o limitare il pregiudizio, bensì al solo fine di ridurre il risarcimento rispetto a quello spettante secondo gli ordinari criteri di liquidazione, tenuto conto di ogni ulteriore elemento utile e così, ad esempio, della consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, delle abitudini di vita, dell’età della vittima, di quella dei singoli superstiti, ecc.” (si veda, da ultimo, Cass. sez. L, n. 29784 del 19/11/2018 m. 651673 – 01). Sempre sul tema della prova in concreto del danno non patrimoniale sub specie di rottura del legame familiare – dal lato però del danneggiato – la Corte ha categoricamente escluso la possibilità di accordarne il riconoscimento ai familiari del defunto, sia pure su base equitativa o per presunzioni, laddove il pregiudizio non sia stato dedotto in modo sufficientemente specifico o dimostrato in modo adeguato. Difatti, il danno non patrimoniale patito dal prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza del fatto illecito del terzo (in questo caso la madre e i fratelli del X.X.), in quanto danno “diverso ed ulteriore rispetto alla sofferenza morale”, non può essere considerato in re ipsa e “non può ritenersi sussistente per il solo fatto che il superstite lamenti la perdita delle abitudini quotidiane, essendo necessaria la dimostrazione di fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, che è onere dell’attore allegare e provare; e … tale onere di allegazione … va adempiuto in modo circostanziato, non potendo risolversi in mere enunciazioni generiche, astratte od ipotetiche” (cfr. Cass. sez. III n. 21060 del 19/10/2016 m. 642934 – 02).
17. Ora, in prima approssimazione, non v’è dubbio (v. oltre) che nessun legame e men che meno alcuna apprezzabile e durevole frequentazione vi sia mai stata negli ultimi anni di vita del povero X.X. tra costui e gli odierni attori; ragione per cui essi hanno invocato una mera “pretesa da posizione” senza che essa sia risultata sostanziata di alcuno dei profili (sconvolgimento interiore, alterazione delle relazioni, frequentazioni affettive etc.) che sostanziano l’in sé del cd. danno parentale.
18. Invero, trattasi di un danno che, come dai giudici di legittimità evidenziato fin già dalla sentenza n. 10107, del 9/5/2011, “va al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell’irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e sulla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost., nonché nell’alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti, danno che può presumersi allorquando costoro siano legati da uno stretto vincolo di parentela, ipotesi in cui la perdita lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare” (cfr., ex multis, Cass. 16/3/2012, n. 4253; Cass. 14/6/2016, n. 12146; Cass. 15/2/ 2018, n. 3767).
19. Com’è dato constatare si tratta di un plesso interpretativo assolutamente univoco e coeso innestatosi sulla duplice esigenza manifestata dalla Cassazione di evitare automatismi risarcitori.
20.
Orbene, venendo all’esame del caso di specie, la sig.ra X.Y., nonché i sigg.ri X.Z. e X.H. (rispettivamente nella qualità di madre e di germani del defunto X.X.), hanno addotto una serie di circostanze nell’intento di provare (contrariamente a quanto asserisce la convenuta ASL (
omissis)) il mantenimento di uno stabile e reciproco legame affettivo intercorso con il X.X. e bruscamente reciso soltanto dal decesso di quest’ultimo, sopraggiunto in data 27.10.2005. Malgrado il de cuius si fosse trasferito in Italia nel 2002, prima di allontanarsi dalla Polonia e dai relativi affetti familiari, gli attori hanno precisato che costui – avendo divorziato dalla moglie nel 1997 – fosse andato a vivere presso l’abitazione materna e, ivi, assieme ai germani X.Z. e X.H., aveva risieduto per sei mesi (ciò è quanto si ricava dal certificato di residenza permanente – v. doc. 12, ed è ulteriormente emerso dalla deposizione resa dalla teste, sig.ra (omissis), all’udienza del 22.11.2017). Gli attori hanno affermato che il legame, già rinforzatosi per effetto della descritta convivenza, ha conservato – immutate – la propria intensità e continuità, indipendentemente dall’allontanamento della casa familiare. A sostegno di tale assunto, è riportata la circostanza (emersa sia pure in modo incompleto e frammentario dalle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis)) che il clochard polacco annualmente si sarebbe recato durante le festività pasquali e natalizie presso l’abitazione della madre in Polonia e che, nell’ottobre del 2003, sarebbe andato a far visita alla sorella X.H. che nel frattempo, essendosi trasferita in Italia, lavorava a Piancandoli. In aggiunta a ciò, gli attori hanno depositato copia di alcune fotografie (a detta di parte risalenti al 2000) che ritraggono il sig. X.X. in compagnia dei familiari, in Italia e Polonia. Anzitutto, il decidente ritiene non ragionevole e, comunque, non provata la possibilità che, specie negli ultimi anni di vita, il clochard polacco – deceduto nel 2005 in condizioni di assoluta indigenza economica – potesse realmente farsi carico delle spese occorrenti per gli spostamenti necessari a raggiungere il paese d’origine o la sorella in provincia di Firenze; né tantomeno, l’assunto di parte attrice (genericamente confermato dai testi escussi) rinviene un valido fondamento probatorio nei documenti fotografici prodotti in giudizio atteso che, come anticipato, sono state depositate fotografie che ritraggono il sig. X.X. assieme a prossimi congiunti – da ultimo e solo asseritamente – nel 2000, ossia ben cinque anni prima della sua morte.
21. La descritta vicenda dell’isolato incontro con la sorella nell’ottobre del 2003, presso il Comune di Piancandoli ove ella lavorava, testimonia anzi quanto evanescenti e inconsistenti fossero divenute le frequentazioni tra gli odierni attori e il sig. X.X..
22.
In definitiva è mancata la prova circa la conservazione di un finanche labile legame affettivo con il de cuius e, quindi, la prova del danno da perdita del rapporto parentale di cui i prossimi congiunti hanno chiesto il ristoro.
23. Né, a maggior ragione e da ultimo, v’è la possibilità – in linea con i più recenti e menzionati approdi giurisprudenziali volti a evitare che venga ad essere snaturata la funzione del risarcimento e che si addivenga a ingiustificate locupletazioni – di rinvenire fatti precisi e specifici, idonei a circostanziare i pregiudizi patiti dalle vittime sotti il profilo, ancora più restrittivo e circoscritto, di un cd. danno esistenziale (inteso come “la sofferenza e il dolore non rimangano più allo stato intimo ma evolvano, … in pregiudizi concernenti aspetti relazionali della vita” cfr. v. Cass., SS. UU., 11/11/2008, n. 26972. Per tali ragioni, si è ritenuto che vi sia identità tra “il pregiudizio esistenziale o da rottura del rapporto parentale” che “non consiste allora nello sconvolgimento dell’agenda o nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della … quotidianità della vita, ma si sostanzia nello sconvolgimento – dell’esistenza rivelato da fondamentali e radicali cambiamenti dello stile di vita, in scelte di vita diversa”.
24. Restano assorbite le valutazioni sulla polizza assicuratrice.

25. Le spese di lite seguono la soccombenza e possono essere liquidate come da dispositivo alla luce dei criteri di cui all’art. 4 D.M. 55/2014.
26. Quanto alle chiamate di terzo le stesse possono essere compensate, tenuto conto che proprio la posta risarcitoria riconosciuta dalla COMPAGNIA ASSICURATRICE 1 ha ingenerato nella convenuta il convincimento che la polizza assicurativa fosse idonea all’invocata manleva.

P.T.M.

il Tribunale di Roma definitivamente decidendo sulle domande proposte da X.Y., X.Z. e X.H. nei confronti dell’AZIENDA USL (omissis) e sulla chiamata in causa di COMPAGNIA ASSICURATRICE 1 e COMPAGNIA ASSICURATRICE 2, così provvede:
a. rigetta le domande;
b. condanna parti convenute, in solido, al pagamento delle spese di lite che liquida in Euro 21.387,00 oltre IVA, CPA e contributo spese generali al 15%;
c. dichiara assorbite le chiamate in garanzia;
d. compensa le spese in relazione al capo precedente.
Così deciso in Roma il 06/03/2019.