Avvocato Pallanch

Corte Costituzionale n. 86/2018 – l’indennità dovuta al dipendente non reintegrato ha natura risarcitoria

 

Premessa normativa.

La legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), tra i tanti interventi in materia di diritto del lavoro, ha riscritto l’art. 18 della Legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), nella parte in cui è contenuta la disciplina delle sanzioni per il datore di lavoro e – per converso – dei diritti spettanti al lavoratore per il caso di licenziamento illegittimo.

L’art. 18 post riforma (ad oggi vigente), a seconda della gravità della patologia che affligge il recesso datoriale (insomma: il licenziamento), prevede quattro distinte tutele per il lavoratore illegittimamente licenziato. La dottrina ha attribuito a tali categorie la seguente nomenclatura: tutela reintegratoria piena; la tutela reale attenuata; tutela indennitaria forte e tutela indennitaria limitata.

Il caso che affrontiamo oggi riguarda la tutela c.d. reale attenuata, la quale trova disciplina al comma 4 dell’art. 18.

In buona sostanza la norma prevede che, nel caso in cui il Giudice dovesse giudicare illegittimo un licenziamento disciplinare in quanto il fatto contestato (cioè la violazione disciplinare) non sussista o in quanto il medesimo fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei CCNL applicabili, allora dovrà annullare il licenziamento, ordinare al datore la reintegrazione del lavoratore sul luogo di lavoro e condannare il medesimo datore al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione

La vertenza.

I tratti fondamentali della vertenza sono i seguenti:

– Una banca licenziava un dipendente per giusta causa.

– Il dipendente impugnava il licenziamento in vigenza del c.d. rito Fornero.

– La prima fase del processo (c.d. fase sommaria) dava ragione al lavoratore il quale, in applicazione dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970 (lo Statuto dei Lavoratori) otteneva l’annullamento del licenziamento. Il Giudice del Lavoro, sempre in applicazione dello Statuto dei Lavoratori, ordinava inoltre al datore di lavoro di reintegrare il dipendente nel suo posto di lavoro e di versare in favore di quest’ultimo un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.

– Il datore di lavoro, però, fiducioso che i successivi gradi di giudizio gli avrebbero dato ragione, non aveva ottemperato l’ordine del giudice.

– O meglio, vi aveva ottemperato parzialmente: non aveva cioè reintegrato il dipendente ma aveva corrisposto in favore di quest’ultimo l’indennità di cui all’art. 18, comma 4, L. 300/1970. In buona sostanza il datore di lavoro, mentre si organizzava per il secondo grado di giudizio, aveva deciso di tenere a casa il dipendente, versando comunque in favore dello stesso l’indennità indicata dal giudice.

– Il datore di lavoro attivava quindi la seconda fase del processo (c.d. fase ordinaria) e raccoglieva una netta vittoria processuale. Il Giudice del Lavoro ribaltava la sentenza e, confermando la giusta causa del licenziamento, lo dichiarava legittimo.

– A questo punto il datore di lavoro, forte della propria vittoria, chiedeva all’ex dipendente di restituirgli tutte le somme corrisposte a titolo di indennità in ottemperanza dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, poi ribaltata con sentenza all’esito della fase ordinaria.

– Il dipendente non le restituiva in quanto riteneva che tali indennità fossero – nonostante in tenore letterale dell’art. 18, che le qualifica come “risarcitorie” – in concreto delle retribuzioni, maturate a pieno titolo dal lavoratore anche senza aver prestato attività lavorativa.

– Il datore di lavoro non aveva altra soluzione che rivolgersi nuovamente al Tribunale (di Trento) per far accertare il proprio diritto alla restituzione delle indennità risarcitorie versate e per veder condannare l’ex dipendente alla restituzione. E così faceva.

– Proprio nel corso di questo giudizio veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970, per possibile incompatibilità con l’art. 3 della Carta Costituzionale, il quale sancisce il principio fondamentale di uguaglianza.

Il dubbio sulla legittimità costituzionale e gli effetti pratici sul lavoratore.

Il giudice rimettente riteneva che la lettera (cioè il tenore letterale) del comma 4 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, nella parte in cui riconosce natura risarcitoria e non retributiva all’indennità di cui ci occupiamo, potesse dare luogo ad una irragionevole situazione di disuguaglianza, non ammessa dalla Costituzione.

Per la precisione il Tribunale di Trento sollevava questione di legittimità costituzionale della norma in esame «nella parte in cui […] attribuisce, irragionevolmente, natura risarcitoria, anziché retributiva, alle somme di denaro che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere in relazione al periodo intercorrente dalla pronuncia di annullamento del licenziamento e di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro provvisoriamente esecutiva fino all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa o fino alla pronuncia di riforma della prima».

Insomma: secondo il giudice a quo, se in effetti si riconoscesse natura risarcitoria all’indennità sorgerebbe una innegabile diversità di trattamento tra quei lavoratori che, una volta ottenuta una sentenza di annullamento del loro licenziamento (immediatamente esecutiva) ex art. 18 comma 4 L. 300/1979 vengano reintegrati nel posto di lavoro rispetto a quelli che, nelle medesime condizioni, vengono lasciati a casa ricevendo l’indennità c.d. sostitutiva.

Ebbene, i primi, una volta dichiarata con sentenza la legittimità del licenziamento, non sarebbero tenuti a restituire l’indennità ricevuta nel corso del processo, mentre i secondi invece si!

D’altra parte l’indennità corrisposta ai primi (quelli reintegrati nel posto di lavoro) per effetto dell’attività lavorativa effettivamente prestata, vedrebbe mutare la propria natura da risarcitoria a retributiva con applicazione dell’art. 2126 c.c. (la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione…) e con il conseguente diritto a trattenere i compensi ricevuti, mentre quella corrisposta ai secondi (che non vengono reintegrati e quindi non lavorano) non assise a tale metamorfosi, continuando ad avere natura meramente risarcitoria. Tale indennizzo risarcitorio, quindi, una volta rovesciata la sentenza di annullamento del licenziamento, deve essere restituito.

Insomma: una bella differenza di trattamento.

Il Giudice rimettente quindi riteneva che l’art. 18, comma 4, L. 300/1970 post Legge Fornero, nel qualificare l’indennità in esame come risarcitoria anziché come retributiva, violasse la Costituzione Italiana, che invece impone che tutti i cittadini siano trattati allo stesso modo dalla legge.

In termini più tecnici, secondo il rimettente l’indennità dovrebbe avere sempre natura retributiva sia in caso di effettivo reintegro che in caso di mancato reintegro (e conseguente obbligo per il datore di versare l’indennità sostitutiva) in quanto il Tribunale, ogni qual volta emetta sentenza di annullamento di un licenziamento ed ordina al datore di reintegrare il lavoratore, ripristina la c.d. lex contractus. Il contratto di lavoro, cioè, tornerebbe perfettamente in vigore e quindi l’indennità versata in favore del lavoratore non reintegrato costituirebbe a tutti gli effetti uno stipendio. Il fatto che il datore decida di utilizzare o meno la prestazione del lavoratore non dovrebbe avere effetti nei confronti della natura dell’indennità.

Insomma: l’art. 18, comma 4, L. 300/1970, per come è formulato, favorirebbe quei datori di lavoro che decidono di “scommettere” sulla vittoria in secondo o in terzo grado di giudizio, non ottemperando l’ordine di reintegra, rispetto a quei datori che invece reintegrano il dipendente. Solo i primi, qualora vittoriosi in Appello o in Cassazione, potranno ottenere una condanna del lavoratore a restituire le indennità medio tempore versate. E ciò, secondo il giudice rimettente, qualifica una violazione dell’art. 3 Cost.

La decisione della Consulta.

Veniamo subito al dunque.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 86/2018 ha deciso che la questione di legittimità NON è fondata. L’art. 18, comma 4, L. 300/1970, nella sua formulazione post Legge Fornero, NON viola l’art. 3 della Costituzione.

La disposizione di cui al novellato quarto comma dell‘art. 18 della legge n. 300 del 1970 – con il prevedere che il datore di lavoro, in caso di inottemperanza all’ordine (immediatamente esecutivo) del giudice, che lo condanni a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, sia tenuto a corrispondergli, in via sostitutiva, una «indennità risarcitoria» – non è “irragionevole”, come sospetta il rimettente, bensì coerente al contesto della fattispecie disciplinata, connotata dalla correlazione di detta indennità ad una condotta contra ius del datore di lavoro e non ad una prestazione di attività lavorativa da parte del dipendente”.

Insomma: il datore che non reintegra il lavoratore commette un atto illecito, che dovrà essere risarcito. Tutto qui.

Se poi il datore di lavoro effettivamente reintegra il lavoratore (e non commette quindi un atto contra jus), e quest’ultimo presta attività lavorativa, le somme versate al dipendente potranno essere da questi trattenute anche in caso di sentenza definitiva che accerti che il licenziamento era perfettamente legittimo. Ciò in applicazione del sopra visto meccanismo di cui all’art. 2126 c.c.

Si tratterebbe, secondo i Giudici delle Leggi, di due situazioni non omogenee tra loro. Quindi non può essere invocato l’art. 3 Cost.

D’altra parte si deve considerare che “il datore di lavoro ottemperante all’ordine del giudice ottiene, infatti, quale corrispettivo dell’esborso retributivo, una controprestazione lavorativa, che manca invece al datore di lavoro inadempiente”.

Nessuna disparità, quindi.

-§-

Ad oggi, quindi, è possibile tirare qualche conclusione:

Quel datore di lavoro che, soccombente in primo grado, scelga di “scommettere” sulla legittimità del licenziamento intimato e di non reintegrare il lavoratore nelle more dei gradi di giudizio, in caso di vittoria processuale definitiva potrà ripetere dal lavoratore tutte le indennità risarcitorie corrisposte. Tuttavia, qualora i giudizi di impugnazione dovessero confermare l’illegittimità del licenziamento, quel datore di lavoro non potrà chiedere indietro proprio nulla al lavoratore; e per giunta non avrà nemmeno beneficiato – in cambio del versamento dell’indennità – di alcuna prestazione lavorativa.

Gli imprenditori meno avvezzi al rischio preferiranno di certo ottemperare all’ordine del giudice (evitando di commettere un atto contra ius), reintegrando il dipendente. Questi imprenditori sapranno che, comunque vada la causa, non potranno di certo ripetere le somme corrisposte al lavoratore reintegrato, ma in cambio avranno quantomeno ottenuto una prestazione lavorativa.