ZONA ROSSA E ARANCIONE: RISTORANTI APERTI per somministrare il pranzo ai dipendenti delle aziende convenzionate anche senza codice ATECO – possibili soluzioni.
Il DPCM 3.11.2020 ha stabilito la chiusura di tutti i ristoranti, bar, gelaterie e pasticcerie nelle zone arancioni e rosse. Tuttavia possono rimanere aperte le “mense”.
In questo articolo si analizzano gli argomenti e le fonti che inducono a ritenere che i semplici ristoranti e i bar, seppur sprovvisti di codice ATECO che li identifichi come “mensa”, possono invece rimanere aperti anche in zona arancione e rossa al fine di somministrare il vitto a lavoratori, previa stipula di specifiche convenzioni con i datori di lavoro.
COSA DICE IL DPCM 3.11.2020
Il DPCM dd. 03.11.2020, in attuazione del d.l. n. 19/2020, recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica del COVID-19”, ha introdotto particolari misure di contenimento applicabili alle aree del territorio nazionale caratterizzate da uno scenario “elevata” e “massima” gravità (c.d. zone “arancioni” e “rosse”).
In particolare gli articoli 2 e 3 del citato DPCM prevedono, rispettivamente per le zone arancioni e rosse, la sospensione delle attività di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie e pasticcerie) ad esclusione “delle mense e del catering continuativo su base contrattuale”.
Insomma: nelle zone arancioni o rosse i ristoranti stanno chiusi. Rimangono invece aperte le mense e i catering continuativi su base contrattuale.
La ragione del provvedimento pare evidente. Al fine di limitare gli assembramenti e le occasioni di contagio, non è più possibile andare al ristorante per il semplice piacere di stare in compagnia. Rimangono così aperte le some mense, le quali hanno infatti la funzione di garantire ai lavoratori di consumare un pasto caldo nel corso della giornata lavorativa.
QUAL È LA DIFFERENZA TRA RISTORANTE E MENSA?
Da un punto di vista formale, la differenza è nel cosiddetto codice ATECO.
Per chi non lo sapesse, il codice ATECO è un codice alfanumerico che identifica una precisa attività economica. Il codice viene attribuito a ciascuna impresa dalla Camera di Commercio territorialmente competente al momento dell’iscrizione al Registro delle Imprese.
Ogni codice, pertanto, corrisponde ad una specifica e diversa attività d’impresa.
L’attività di “ristorante con somministrazione” corrisponde al codice ATECO 56.10.11, mentre l’attività di “mensa” corrisponde al codice ATECO 56.29.10.
Ma, in concreto, qual è la differenza tra un ristorante e una mensa aziendale?
La legge non si prende carico di fornire una esaustiva definizione del concetto di “mensa aziendale”.
Il dato normativo di partenza è certamente l’art. 51 co. 2, lett. c), T.U.I.R. (d.P.R. 917/1986) il quale, pur occupandosi della questione “pasto del dipendente” ai soli fini di determinare il reddito da sottoporre ad imposta, ci consegna alcuni dati utili, ai quali ancorare un ragionamento.
La citata disposizione offre una possibile definizione del concetto di “mensa aziendale”, stabilendo che non concorrono a formare reddito imponibile: “le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro nonché quelle in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro o gestite da terzi”.
Tradotto: è MENSA AZIENDALE quel luogo organizzato direttamente dal datore di lavoro oppure gestito da terzi ove viene somministrato il vitto ai lavoratori.
Il RISTORANTE, invece, si occupa di somministrare alimenti e bevande a tutti. Non solo ai lavoratori.
Questa è la principale differenza tra MENSA e RISTORANTE.
La prima (Mensa – Cod. 56.29.10) fornisce il vitto ad una determinata categoria di soggetti (nel nostro caso, i lavoratori), mentre il secondo (Ristorante – Cod. 56.10.11) a chiunque sia disposto a pagare il corrispettivo richiesto.
Dunque, da un punto di vista formale, pare che il DPCM 3.11.2020 consenta solo agli esercizi in possesso del codice ATECO 56.29.10 di rimanere aperti nelle zone arancioni e rosse.
Il formalismo, però, genera iniquità.
Non tutte le aziende hanno infatti una mensa interna, intesa quale ristorante interno ai locali aziendali destinato in via esclusiva alla fornitura del vitto ai lavoratori.
In questo contesto, il rischio è che i dipendenti di imprese prive di mensa interna, si ritrovino nell’impossibilità di consumare un pasto caldo, in quanto tutti i ristoranti nei pressi del luogo di lavoro devono restare chiusi in applicazione del DPCM 3.11.2020.
Dunque, da una lettura formale del DPCM, parrebbe che solo i lavoratori che hanno la fortuna di avere una mensa aziendale possono consumare un pasto caldo a metà giornata, mentre i meno fortunati dovranno invece ripiegare sul pranzo al sacco.
Di seguito proponiamo utili argomenti per sostenere il contrario. Cioè per affermare che anche i ristoranti, a certe condizioni, possono rimanere aperti per offrire il vitto ai lavoratori nonostante la vigenza del DPCM 3.11.2020.
Il RISORANTE può essere assimilato ad una MENSA AZIENDALE
anche senza codice ATECO.
La necessità è quindi quella di stabilire se un comune pubblico esercizio, cioè un semplice bar o ristorante, qualora in effetti si limiti a fornire il vitto ai lavoratori – e quindi di fatto eserciti la medesima attività delle mense aziendali – possa rimanere aperto nonostante la vigenza del DPCM e fornire il pasto quantomeno ai lavoratori.
Interessanti ed autorevoli argomenti a supporto di tale possibilità sono rinvenibili nelle Circolari del Ministero delle Finanze n. 326 del 23.12.1997 e n. 188 E del 16.7.1988.
Le circolari commentavano l’allora art. 48 co. 2, lett. c), T.U.I.R. (d.P.R. 917/1986), cioè l’attuale art. 51, comma 2 lett. c) T.U.I.R., il quale era stato da poco riscritto nel senso di includere nel concetto di mensa aziendale non solo le somministrazioni di vitto in mense organizzate direttamente dal datore di lavoro ma includendo in tale categoria anche le somministrazioni di vitto in mense che siano gestite da terzi”.
Il Ministero delle Finanze, nella richiamata Circolare 326/97, a tal proposito, scrive “tenuto conto della nuova formulazione della norma, è opportuno precisare che tra le prestazioni di vitto e le somministrazioni in mense aziendali, anche gestite da terzi, sono comprese le convenzioni con i ristoranti…”
La successiva Circolare n. 188 E del 16.7.1988 ribadisce espressamente tale estensione, seppur chiarendo che la novella impedisce di identificare i ristoranti convenzionati quali mense aziendali con effetto retroattivo. La nuova interpretazione estensiva, quindi, opera solo dal 1° gennaio 1998 in avanti.
Infine, anche Agenzia Entrate, con la Risoluzione n. 63 del 17.5.2005 sposa e condivide tale teoria, giungendo addirittura ad estendere ad ogni bar e ristorante che sia munito di una specifica convenzione con i datori di lavoro la qualifica di mensa aziendale. E ciò anche nel caso in cui non sia il datore di lavoro a pagare direttamente i pasti consumati dai dipendenti, ma siano direttamente i lavoratori a pagare mediante utilizzando di ticket elettronici. Tali ticket devono però avere dei requisiti specifici (nei quali non ci addentriamo in questa sede).
In definitiva, le fonti sopra riportate ci portano a ritenere che – quantomeno a fini fiscali – un pubblico esercizio, il quale svolga attività di ristorazione, possa in astratto essere qualificato come “mensa aziendale” seppur “limitatamente alle prestazioni di somministrazione di alimenti e bevande realizzate sulla base di specifiche convenzioni con i datori di lavoro”.
Pare quindi possibile affermare che ogni pubblico esercizio, qualora sia munito di specifica convenzione con l’impresa possa essere qualificato “mensa aziendale” e quindi rimanere aperto anche nelle zone arancioni o rosse al fine esclusivo di somministrare il vitto ai dipendenti delle imprese convenzionate.
Le convenzioni, ovviamente, dovranno contenere delle specifiche pattuizioni le quali rendano evidente la natura di servizio reso dal ristorante in favore dei dipendenti delle varie imprese aderenti. Le clausole della convenzione, insomma, dovranno soddisfare tutti quei requisiti che consentano di identificare il ristorante come mensa aziendale nel senso sopra detto.
Naturalmente non ci sono certezze su quale sarà l’orientamento che sposerà la giurisprudenza. Se quello formale – fondato sui codici ATECO – o quello sostanziale – fondato sull’effettiva attività prestata dal ristoratore.
Il mio contributo, naturalmente, milita in favore della tesi sostanzialista.
Avv. Matteo Pallanch